Ci sono alcuni film, a differenza dei libri, che si scelgono nel momento sbagliato.
Synecdoche è smaccatamente un film autunnale, e infatti inizia alle 7.44 del 22 settembre, ma nonostante la stagione in cui io l’ho guardato non sia quella ideale, non posso esimermi dal presentarlo come un film denso e speciale.
Sicuramente non è un film gradevole a tutti i palati perché molto cerebrale, deprimente e anche psicotico, oltre ad essere sbilanciato sulla scrittura. Tutte caratteristiche, insomma, che lo collocano nel filone “triste e intellettuale”, un genere amato dal grande pubblico tanto quanto le giornate di pioggia durate le vacanze al mare.
Il qui regista Kaufman è famoso come sceneggiatore, io direi geniale sceneggiatore, per film di altri registi come Spike Jonze e Michel Gondry (Essere John Malkovich, Se mi lasci ti cancello, Il ladro di orchidee) oltre che del primo film di George Clooney (Confessioni di una mente pericolosa). Kaufman in questa nuova veste si lancia in una de-costruzione e ricostruzione filmica veramente interessante che appoggia su giochi linguistici e, ancora una volta, su alcune sue ossessioni trasportate in un protagonista alter-ego.
Ad essere sinceri il passaggio alla macchina da presa appesantisce un pochino il risultato finale, probabilmente una mediazione costretta dal mettere nelle (buone) mani di altri il cervellotico lavoro di scrittura avrebbe “ammorbidito” il film, proprio com’è accaduto nelle esperienze passate.
Si racconta di Caden Cotard, uno sceneggiatore teatrale tormentato da strani malanni, mentre cerca di realizzare la sua opera magna e contemporaneamente si assiste alla progressiva demolizione della sua vita che è al tempo stesso il materiale con il quale costruisce il suo progetto: la realizzazione di un’opera vera e pura.
Da spettatori ci si trova invischiati nel tentativo di assemblare un puzzle dove le tessere vengono smontate e rimontate da un’altra parte, in un disegno che assomiglia al primo, ma è per forza un altro: un tentativo di emulazione che vorrebbe essere sincero e genuino, ma è una copia. Un copia in grado però di generare del nuovo materiale “reale” facendo scaturire evoluzioni di vita che influenzano quella "genuina" di partenza modificandola.
Questo gioco di frammenti dà un po’ alla testa, alle volte sembra grottescamente tragicomico, il più delle volte crea vertigini, trasformando quelle rappresentazioni di rappresentazioni in pezzi che fatichiamo sempre più a incastrare per ricomporre l’opera teatrale e quindi la storia e quindi “la vita”.
L’intenzione è quella di un teatro/cinema/arte che vuole imitare l'esistenza per carpirne la spontaneità, ma dopo aver eliminato il limite materiale (set immenso e senza il problema dei costi) si scontra con il limite concettuale: come esprimere la verità del reale con la finzione?
Intanto tutto procede per forza, inesorabile, in una condizione di non-equilibrio che si attende collassi. Caden Cotard continua quel lavoro di vivisezionamento innato, forse patologico, alla ricerca di qualcosa che non ha chiaro e che spera si riveli. Nella sua opera definitiva vuole ri-esprimere la sua vita tormentata, che ad ogni passo in avanti porta ad una caduta, alla ricerca di un qualcosa di ideale ed esplicativo.
Di caduta in caduta, di incomprensione in tentativo di comprensione, si arriva ad una “fine” illuminante che si presenta quando si allontana dalla sua figura, dal suo ruolo di regista (che viene interpretato da una donna) e diventa attore di se stesso. Ecco allora che liberato, o solo "finito", riesce a capire qual era l’idea che tanto agognava.
Quello che cercava probabilmente non esisteva e l'essenza si nascondeva nel cercare stesso: un po’ come quando si dice che la meta del viaggio è il viaggio stesso… Questa dovrebbe essere la conclusione; o forse no?
E se quello che abbiamo visto non fosse una “vera” finzione e la finzione della finzione, se gli elementi (i malanni di Cadel potrebbero essere raffigurazioni di uno stato ipocondriaco) e le situazioni stranianti (ad esempio la casa abitata che brucia sempre), e un tempo che trascorre senza essere mai chiaramente decifrabile, fossero indicatori che “siamo” in un’altra dimensione?
Se avessimo visto “il purgatorio” di un regista già morto, che si trova in un limbo costretto a rivivere le fasi della sua tormentata vita per trarne una qualche conclusione?
Dopo un malessere costante nello “svolgere” una vita che degrada e il tentativo di “riavvolgerla” del nostro protagonista, finalmente avrebbe la possibilità di capire, guardare con distacco, e quindi sapere come fare quella grandiosa opera.
«Ora ho un’idea». Ma il tempo è scaduto, ora… Muori.
Synecdoche è smaccatamente un film autunnale, e infatti inizia alle 7.44 del 22 settembre, ma nonostante la stagione in cui io l’ho guardato non sia quella ideale, non posso esimermi dal presentarlo come un film denso e speciale.
Sicuramente non è un film gradevole a tutti i palati perché molto cerebrale, deprimente e anche psicotico, oltre ad essere sbilanciato sulla scrittura. Tutte caratteristiche, insomma, che lo collocano nel filone “triste e intellettuale”, un genere amato dal grande pubblico tanto quanto le giornate di pioggia durate le vacanze al mare.
Il qui regista Kaufman è famoso come sceneggiatore, io direi geniale sceneggiatore, per film di altri registi come Spike Jonze e Michel Gondry (Essere John Malkovich, Se mi lasci ti cancello, Il ladro di orchidee) oltre che del primo film di George Clooney (Confessioni di una mente pericolosa). Kaufman in questa nuova veste si lancia in una de-costruzione e ricostruzione filmica veramente interessante che appoggia su giochi linguistici e, ancora una volta, su alcune sue ossessioni trasportate in un protagonista alter-ego.
Ad essere sinceri il passaggio alla macchina da presa appesantisce un pochino il risultato finale, probabilmente una mediazione costretta dal mettere nelle (buone) mani di altri il cervellotico lavoro di scrittura avrebbe “ammorbidito” il film, proprio com’è accaduto nelle esperienze passate.
Si racconta di Caden Cotard, uno sceneggiatore teatrale tormentato da strani malanni, mentre cerca di realizzare la sua opera magna e contemporaneamente si assiste alla progressiva demolizione della sua vita che è al tempo stesso il materiale con il quale costruisce il suo progetto: la realizzazione di un’opera vera e pura.
Da spettatori ci si trova invischiati nel tentativo di assemblare un puzzle dove le tessere vengono smontate e rimontate da un’altra parte, in un disegno che assomiglia al primo, ma è per forza un altro: un tentativo di emulazione che vorrebbe essere sincero e genuino, ma è una copia. Un copia in grado però di generare del nuovo materiale “reale” facendo scaturire evoluzioni di vita che influenzano quella "genuina" di partenza modificandola.
Questo gioco di frammenti dà un po’ alla testa, alle volte sembra grottescamente tragicomico, il più delle volte crea vertigini, trasformando quelle rappresentazioni di rappresentazioni in pezzi che fatichiamo sempre più a incastrare per ricomporre l’opera teatrale e quindi la storia e quindi “la vita”.
L’intenzione è quella di un teatro/cinema/arte che vuole imitare l'esistenza per carpirne la spontaneità, ma dopo aver eliminato il limite materiale (set immenso e senza il problema dei costi) si scontra con il limite concettuale: come esprimere la verità del reale con la finzione?
Intanto tutto procede per forza, inesorabile, in una condizione di non-equilibrio che si attende collassi. Caden Cotard continua quel lavoro di vivisezionamento innato, forse patologico, alla ricerca di qualcosa che non ha chiaro e che spera si riveli. Nella sua opera definitiva vuole ri-esprimere la sua vita tormentata, che ad ogni passo in avanti porta ad una caduta, alla ricerca di un qualcosa di ideale ed esplicativo.
Di caduta in caduta, di incomprensione in tentativo di comprensione, si arriva ad una “fine” illuminante che si presenta quando si allontana dalla sua figura, dal suo ruolo di regista (che viene interpretato da una donna) e diventa attore di se stesso. Ecco allora che liberato, o solo "finito", riesce a capire qual era l’idea che tanto agognava.
Quello che cercava probabilmente non esisteva e l'essenza si nascondeva nel cercare stesso: un po’ come quando si dice che la meta del viaggio è il viaggio stesso… Questa dovrebbe essere la conclusione; o forse no?
E se quello che abbiamo visto non fosse una “vera” finzione e la finzione della finzione, se gli elementi (i malanni di Cadel potrebbero essere raffigurazioni di uno stato ipocondriaco) e le situazioni stranianti (ad esempio la casa abitata che brucia sempre), e un tempo che trascorre senza essere mai chiaramente decifrabile, fossero indicatori che “siamo” in un’altra dimensione?
Se avessimo visto “il purgatorio” di un regista già morto, che si trova in un limbo costretto a rivivere le fasi della sua tormentata vita per trarne una qualche conclusione?
Dopo un malessere costante nello “svolgere” una vita che degrada e il tentativo di “riavvolgerla” del nostro protagonista, finalmente avrebbe la possibilità di capire, guardare con distacco, e quindi sapere come fare quella grandiosa opera.
«Ora ho un’idea». Ma il tempo è scaduto, ora… Muori.
Estasiato
| Reg: 7 | Rec: 8 | Fot: 7 | Sce: 9 | Son: 8 |
| Reg: 7 | Rec: 8 | Fot: 7 | Sce: 9 | Son: 8 |