Ho visto il film che sicuramente questa notte vincerà qualche importante statuetta agli Oscar, è un film tecnicamente ben fatto, ma se devo dire quanto mi è piaciuto non mi sbilancerei: l’ho gradito solo per la sua formalità.
Guardandolo mi è venuto in mente quando lessi una riflessione sul cinema che partiva dalla celebre frase di Wittgenstein “su ciò di cui non si può parlare è meglio tacere” e per contro indicava nel cinema la capacita di esprimere quello che non si può trasmettere con le parole; il cinema muto era l’evidenza di questo discorso.
Sicuramente il passaggio al sonoro fu una rivoluzione, il cinema mutò, e seguendo la riflessione accennata, perse la sua specifica genuinità: mentre prima erano le immagini che parlavano, adesso non erano più autosufficienti, si poteva dire senza dover per forza mostrare.
Io questa mutazione la vedo più come un’evoluzione: il fatto di poter comunque girare film muti, volendo, rende chiaro che non si perde niente, anzi, si può beneficiare delle maggiori possibilità offerte dal sonoro.
The Artist è esattamente la prova che non si è perso nulla, in questo caso l’assenza del parlato è una scelta stilistica ben sviluppata.
La sceneggiatura è "calcolata" - sia per l'espressione della storia, sia per la metafilmica collocazione temporale proprio alla fine del cinema muto - e impreziosisce un soggetto di per sé banale. Buona la regia e bravi gli attori, ma è quello che si esprime che non mi è piaciuto.
Il film mi ha smosso in particolare l'idea del “dramma della bellezza”.
Guardando Peppy Miller, aspirante attrice dalla bella presenza, mi è venuta in mente, per contrasto, Belen Rodriguez.
La bellezza di Peppy (Bérénice Bejo) è emanata dal volto e dai movimenti, è un corpo delicato che calamita gli occhi. Quella della nostra soubrette trasborda dall’esposizione delle forme e dai capolini che attizzano, è una superficie che scotta. Due bellezze diverse, simbolo di epoche diverse, che hanno qualcosa in comune: nella società dello spettacolo, la bellezza comunque paga.
Pur nella sua vacuità, basta un neo per fare la differenza, la bellezza è salvifica. I brutti stiano a guardare.
Per questo vedo nel film compressa tutta la banalità di un certo cinema, il cinema di Hollywoodland, il paese delle apparenze. In fondo questa è un'esemplare storia dell'immagine, dell'esteriorità: un'amore fra belli, la scala del successo scesa e salita, il lieto fine. Un archetipo servile al capitalismo e qui il passato viene ritrattato con sapore postmoderno.
Forse questa operazione nostalgica suona un vero requiem all’anima del cinema, lo suona ora che c'è il sonoro: si può appagare il pubblico, si può realizzare opere tecnicamente migliori, ma sembra che non ci sia nulla di buono da dire. L'importante è offrire un'ulteriore sorriso agli spettatori, i non belli. Gradito