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martedì 20 aprile 2010

Shutter Island

shutter island scorsese"Teddy, forza, riprenditi".
Teddy sta soffrendo il mal di mare, è un agente federale e il suo patner Chuck lo invita a preparasi alla loro destinazione che si staglia all'orizzonte: un manicomio criminale costruito su un’isola. I due devono indagare sulla sparizione di Rachel Solado, una paziente uscita dalla sua stanza senza lasciare nessuna traccia, ma quello da cui si deve veramente “riprendere” Teddy, scopriremo, è un’altra cosa.
Scorsese ci posiziona vicini al nostro protagonista, un Di Caprio che si dimostra uno dei migliori attori in circolazione, e ci conduce in un percorso lineare dove si accumulano indizi che servono per costruire un vacillante castello di carte da far cadere con una soffiata finale.
Quello dell’epilogo che mostra tutto quanto sotto una nuova luce non è certo una trovata nuova e anche se insieme all’ultima scena, che si lascia ad una duplice lettura, è sicuramente ciò che più rimane allo spettatore dopo la visione, non bisogna dimenticare quello che c’è prima: un film corposo e avvolgente.
L’inizio richiama ai noir del passato, con un fondale disegnato e i colori slavati, poi nel proseguo si individuano venature hitchcockiane ma intrise di un mood alla Edgar Allan Poe, e dalla prima scena onirica sentiamo il terreno farsi molle sotto i nostri piedi, c'è dell'altro, cadremo in una spirale di dubbi cercando di farci largo tra follia e logica.
L'isola è uno spazio aperto ma delimitato, minacciata dalle acque e tormentata dalla tempesta, praticamente metafora della psiche del nostro protagonista costretto alla prigionia della mente. Cos'è che assilla tanto il nostro protagonista? Sono i ricordi di un passato che non si vuole, non si può, accettare e un senso di colpa che non si riesce a rimuovere. Allora si prova ad arginare tutto, a costringerlo in un'isola, e costruirci intorno un'altra realtà più sostenibile. Ma i ricordi sfuggono, si tramutano in fantasmi, trovano spiragli e diventano ossessioni.
Perché tutto questo dolore? La causa è la violenza, la violenza insita nell'uomo, in ogni uomo, c'è la Storia a ricordarlo (Dachau) come fatto collettivo oltre che personale. Sembra che sia veramente questa la molla che Dio ha dato agli uomini, non l'ordine morale, il vero assetto sistemico si trova intorno ad un'opposizione che segue la regola "può la mia violenza vincere sulla tua?".
Dopo aver vagato nei labirinti della mente, ed esserne usciti ci si ritrova a guardare in faccia la tremenda verità, ma è come un soffiare sulle ceneri di un dolore che non si può spegnere. Tolta la maschera della pazzia ci si riscopre mostri e, forse, è preferibile trovare un po' di pace (lobotomia) fingendo d'essere uomini per bene che vivere, per quello che si è, da mostri.
Scorsese fa del libro "L'isola delle paura" di Denis Lehane un film carico emotivamente e visivamente, un grande gioco di ruolo che si vorrebbe terapeutico e probabilmente riesce ad esserlo pur non ottenendo i risultati clinicamente sperati, ossia l'uomo liberato grazie all'accettazione, ma sviscerando un cervello che controlla fame, empatia, rabbia, dolore... tutto.
Deliziato
| Reg: 8 | Rec: 8 | Fot: 8 | Sce: 8 | Son: 8 |

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